Vincenzo d’Onofrio, procuratore aggiunto ad Avellino spiega la strategia dei baby boss, manovrati dal carcere dai capi camorristi: «Ammettono la colpa, così la pena si riduce sensibilmente». La devozione con i tatuaggi delle bande.
(20 aprile 2016) – «Qui Milano, carcere di Opera: chiediamo la parola», «Chiediamo la parola anche da Ascoli». Dalle sbarre di una delle aule del palazzo di giustizia di Napoli: «Chiedo di poter parlare». In genere l’udienza è appena cominciata. In aula si affacciano parenti e fan degli imputati, alcuni molto giovani che sembrano pendere dalle labbra del capo collegato dal carcere. «Signor giudice, l’ho ucciso io». Si sente dal collegamento. In aula, tra il pubblico, nessuna sorpresa, nessuna smorfia, nessun timore. «L’ho fatto ammazzare, lo ammetto» si sente dire dalla piccola gabbia. «Ammetto l’addebito»: questa è la formula. Una formula che nei processi di camorra si sente sempre più spesso, soprattutto quando chi la pronuncia ha già sulle spalle una condanna all’ergastolo in primo grado. A conti fatti dopo questa ammissione di colpa che non equivale però ad un pentimento, la pena spesso si riduce e così chi è giovane e un pezzo di galera se l’è già fatto, può cominciare a farsi un po’ di calcoli sul suo ritorno in libertà.
La videoinchiesta: http://video.corriere.it/signor-giudice-l-ho-ucciso-io-strategia-capoclan-evitare-ergastoli/524879ca-0732-11e6-8870-6aa8c10eafcf?intcmp=video_wall_hp