Finisce il mondo se non sappiamo raccontarlo più.
Finisce in quella cortina apparentemente invisibile e invece più densa di certe vite al limite che si chiama indifferenza.
Allora l’unica strada per tutti è la scelta. Sceglie chi guarda. Sceglie chi mostra. Sceglie chi crea. Morales sceglie di seguire Picasso quando dice che l’arte è un’arma, è un modo per combattere. Sceglie quando la fa diventare un atto politico. Perché forse l’arte per l’arte non esiste più o non è mai esistita, soprattutto se questo concetto così complesso diventa solo merce da consumare, come divertimento, come speculazione e mero vantaggio economico o come evento mediatico. –
Se avete voglia di andare oltre le polemiche scatenate da Matteo Salvini (si lui e non un’opera d’arte), allora continuate a leggere questo testo che accompagna la mostra di Salvatore Scuotto. Quello che ho scritto avrebbe dovuto essere solo una parte dell’esposizione, una sorta di accompagnamento insieme alle foto meravigliose di Sergio Siano e sì, sono orgogliosa che Salvatore me lo abbia chiesto e sì lo rifarei altre cento volte e quindi non chiedetemelo più. Invece oggi è il modo che ho per spiegare quello che non andrebbe nemmeno spiegato. Ieri è stata una serata magnifica. Ho visto gente commossa, ho sentito discussioni, ho raccolto incoraggiamento e voglia di fare, proposte per future esposizioni. Ho assistito anche a tanta servitù, ho saputo di messaggi intimidatori alla gallerista, abbiamo subito la manipolazione dell’ex ministro dell’Interno che addirittura si è prodotto in un videomessaggio. Ignorante. Perché ignora ciò di cui pretende di parlare. Oggi ne parlano tutti. Siamo finiti nel tritacarne? Forse. Ma non saremo mai strumento di una propaganda che avvelena e anestetizza. Se volete sapere chi sono la Sinera, la Mamma Negra, Morales o gli zombie delle “pacchia è finita”, allora continuate a leggere.
– Chi è Morales? E’ il suo nome. Sono le radici di una madre che ha un cognome che suona come una parola abusata, disillusa, fraintesa e sconfitta: Morale. Sono le eredità di un figlio che recupera una storia. Sono le esse perdute durante il fascismo che non tollerava assonanze straniere e quindi anche quella consonante sibilante di Morales doveva andare giù. Sono le esse della fratellanza di un cognome che è stato il simbolo di una rinascita di un certo modo di fare arte nelle botteghe del centro storico di Napoli. E così Salvatore Scuotto della omonima famiglia che ha dato vita alla Scarabattola recupera il cognome di sua madre, Morale e gli restituisce la “s” che gli apparteneva riparando un torto subito e ribellandosi al fascismo che fu e come prepotente atto simbolico, a quello che ritorna.
Morales a 50 anni si è regalato il tempo per rompere i tempi. Riconosce il valore della scultura contemplativa tesa alla ricercatezza puramente formale ma ha deciso di andare oltre, soprattutto ora che è diventato difficile decifrare la bellezza.
“Io penso che è il momento per la pittura di rompere le cornici e per la scultura di scendere dai piedistalli”, dice Morales. Bisogna dipingere senza evadere, scolpire o modellare plasticamente un pensiero che sia ferocemente rivolto al pubblico. Un pensiero che non lo allieti ma che lo accusi, perché stiamo diventando tutti, nemmeno lentamente, colpevoli.
Così nasce la “Sinera”, una donna africana con le pinne capaci si affrontare il più ostile dei mari, la madonna dei nostri giorni che stringe sul petto quei bambini che abbiamo visto troppe volte morire. E’ il piccolo Aylan dalla Siria con la maglietta rossa, i pantaloncini e la faccia schiacciata sulla sabbia di una spiaggia turca. E’ una bimba appena nata trovata sul fondo del mare ancora abbracciata a sua madre. Sono cadaveri e sopravvissuti. Sono la guerra e la speranza.
Il domani è nella pancia rotonda e viva di una migrante che ci mostra il palmo della sua mano e ci chiede di fermarci. In questo olocausto di mare e di terra sono le donne le prime vittime, torturate, violentate, vendute e comprate e poi usate come bancomat di carne. In tutto questo dolore l’atto rivoluzionario è il venire al mondo, comunque. Nonostante l’odio. Quello della propaganda ci mostra tentativi di uomini forti che alla fine sparano con una pistola giocattolo a degli zombie. Perché il nemico non è il vero nemico. Perché “l’altro” non è un pericolo ma serve mostrare che lo sia. Morales quindi ce lo racconta trasformando gli immigrati in zombie, cadaveri ambulanti, morti viventi, uccisi dalla miseria, dal dolore, dall’abbandono. A chi possono far male? Eppure un Salvini armato di rosario e pistola li affronta millantando coraggio, seminando odio e ingannando gli italiani. Messo così diventa ridicolo e se l’arte riesce a farcelo sembrare tale allora si che lo ha sconfitto. Per questo Morales è irriverente e sovversivo, perché ci costringe a guardare, perché ci strappa un ghigno e un po’ di rabbia. Ci affilia e ci deride ci salva e ci denuncia, come con il suo dito medio che riprende quello di Cattelan difronte alla Borsa di Milano.
Sono nude le tele che ci raccontano il lutto. Quello dei muri e delle crepe, della frammentazione dell’esistenza, del pensiero, di un’idea. Morales ipnotizza con queste linee che si rincorrono e che spiegano. E poi ci sveglia con quelle barriere rigate dalle tracce degli uomini che disperatamente ne restano aggrappati.