«Come si chiamano quelli che si buttano con le bombe addosso eh?», «Quello farebbe tutto per te, anche il “kamikaze”, si metterebbe una bomba in bocca». In questa conversazione intercettata dagli inquirenti dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, Anna Serino, moglie del boss Carlo Lo Russo, sta incitando il marito e i suoi ad uccidere. Spietata, fredda. Nelle sue parole la fede incrollabile nell’organizzazione criminale traspare ad ogni sillaba.
Migliaia di chilometri di distanza. Da Napoli la scena si sposta a Raqqa. «Londra, boom», scrive Sally Jones su Twitter. Vedova dell’hacker dell’Isis Junaid Hussein, Sally ha 45 anni. Si trova in Siria, sotto le bombe. Si è trascinata all’inferno i figli. Ma non smette nemmeno per un momento di incitare tutti al martirio: anche chi si trova nei territori del Kuffar, (i luoghi dove vivono gli infedeli) deve sacrificarsi. «Sorelle, durante il mese del Ramadan sapete cosa dovete fare», afferma rivolgendosi a chi vive in Gran Bretagna.
di Amalia De Simone e Marta Serafini
(7 giugno 2016) – Anna e Sally, Isis e la camorra. Il dio denaro e Allah. Le vesti nere e le tute di ciniglia per nascondere le forme. I rioni di Napoli e il Medio Oriente. Storie diverse, territori diversi. Ma, alla fine di questa partita quello che conta sono i soldi e il potere. La più fedele vince. Ed ecco perché queste donne si assomigliano pur avendo origini, percorsi e storie completamente differenti. Non importa che siano affiliate ad un gruppo terroristico o ad uno criminale. Le donne sono sempre più presenti. E non solo nelle retrovie. Spietate, pronte a tutto. «Fatte le dovute differenze tra l’Isis e la camorra, tra il terrorismo e i clan, le donne sono centrali nelle organizzazioni criminali e hanno un ruolo importante», sottolinea Maurizio Romanelli per molti anni pm antimafia e oggi a capo del pool anti terrorismo di Milano.
Lo si vede nelle fila del Califfato. «Decapitiamo in nome di Allah», ha gridato via Skype Maria Giulia Sergio pur sapendo di star parlando con una giornalista. «Voglio essere la prima a sgozzare un occidentale», ha spiegato a una reporter Kadija Dhare dopo la morte di James Foley. Il ruolo delle donne si evolve. Nei clan di camorra non mancano personalità ormai “storiche”, come Pupetta Maresca che sparò incinta ad un boss per vendicare la morte del marito o Erminia (detta Celeste) Giuliano che, una volta arrestata, chiese di poter indossare un abito leopardato e di far venire in casa la parrucchiera, prima di essere portata in cella. Messaggere, staffette durante i colloqui in carcere, cassiere, custodi degli arsenali, responsabili di gestire gli stipendi del clan. Uno studio dell’Università di Napoli Federico II curato da Gabriella Gribaudi e Marcella Marmo, docenti di storia contemporanea, le ha analizzate statisticamente: il 36% è moglie di un boss, il 9,5 vedova, il 9,1 compagna, il 5 l’amante, il 4,5 ex moglie, il 4,5 ex compagna.
Sull’altro fronte se si vanno a guardare i numeri, sono solo 550 le lady jihad, secondo l’unico studio condotto sull’argomento dall’Icsr (International Center for the Study of Radicalisation) di Londra. Ma il loro numero potrebbe essere cresciuto. «Le donne hanno il compito di sostenere i mujaheddin, devono essere madri e mogli», si legge nella rivista di propaganda di Isis Dabiq. Eppure è chiaro come molte di queste donne non stiano solo dietro le quinte. Anche il direttore di Europol, Rob Wainwright, lo ha confermato «Per la prima volta abbiamo avuto prove che si stanno addestrando». Il vantaggio? «La moltiplicazione dell’impatto mediatico delle stragi, se una donna ne è responsabile e un aumento dell’effetto intimidatorio sulla popolazione civile. Il gruppo terrorista ritiene inoltre che i controlli di sicurezza sulle donne siano meno stringenti». L’obiettivo non è chiaramente la parità di genere: «Non ci può essere uguaglianza sul terreno di morte. Le donne rimangono subalterne», spiega ancora Romanelli.
Isis e la camorra allo specchio. «Di fatto sono due fondamentalismi: mondi intrisi di paranoia, di oscillazione tra l’angoscia per l’attacco alla propria identità e l’esaltazione di appartenenza al gruppo. In entrambi i casi, il giudizio altrui si fonda su ciò che si è, non su ciò che si fa», spiega Corrado De Rosa, psichiatra che si occupa dell’uso della follia nei processi di mafia e terrorismo. Gli esempi non mancano. Addolorata Spina, detta Dora, si offre come bersaglio nella guerra che si combatte vicolo per vicolo nel labirinto del Rione Sanità. Onore, dolore e denaro possono valere un sacrificio da kamikaze e lei lo spiega senza mezzi termini al figlio e alla nuora Enza, intercettata su ordine del pm Enrica Parascandolo e del coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Filippo Beatrice, mentre parla con il figlio agli arresti domiciliari.
Anche nei gruppi jihadisti le donne kamikaze non sono certo una novità. Sebbene fin qui Isis non sembra averne fatto uso, è chiaro come le cose possano cambiare. E sono le donne stesse a dirlo. «Possa Allah unire noi sorelle», scrivono su Twitter le spose del Jihad alzando il dito al cielo come fanno gli uomini per indicare Allah. Nel «diario di una muhajirah» pubblicato sulla piattaforma Tumblr si legge: «Sto qui seduta sulla riva del fiume ad aspettare il ritorno di mio marito. Ma se dovesse essere diventato sahid(martire), allora possa Allah prendere anche la mia anima e permettermi di unirmi a lui nella sua gloria». Anche Maria Giulia Sergio alias Fatima, partita dall’Italia per la Siria nel settembre 2014, in una conversazione intercettata dalla Digos di Milano, spiega alla sorella Marianna di star aspettando il permesso di Al Baghdadi per morire martire.
Ma non c’è solo l’autolesionismo a determinare il destino di queste donne. Il fanatismo è tale da portare ragazze fino a ieri innocenti a torturarne altre «perché non indossano veli abbastanza spessi». E’ la brigata femminile dell’Isis, Al Khansaa, e non quella dei miliziani, a seminare il terrore tra le donne siriane all’interno del bastione dell’Isis. «Mi hanno portato in uno stanzino e mi hanno martoriato le carni del seno perché non indossavo i guanti di stoffa al lavoro», racconterà un’infermiera agli attivisti di Raqqa is being slaughtered silently. Le donne reclutano, torturano ma sono convinte di vivere in un mondo ideale. «Una volte indottrinate le ragazze non leggono siti e giornali. La loro unica fonte d’informazione e’ la propaganda di Daesh», scrive Dounia Bouzar, esperta francese di radicalizzazione.
Che si tratti dell’Isis o della camorra, l’apparenza deve prevalere. I mercati delle città di Raqqa e di Mosul hanno cambiato la foggia dei vestiti in mostra sulle bancarelle. In nome della sharia, le donne ora devono indossare il niqab, il velo integrale. E nulla deve essere mostrato all’uomo, nemmeno un centimetro di pelle. Le spose dei combattenti devono rispettare alla lettera la tradizione, non importa se il loro compagno stupra, uccide, taglia gole e vende altre donne ai mercati e in rete. Loro, le spose del Jihad, sono donne «rispettabili». Unica concessione, le scarpe da ginnastica maschili. Le Nike o le Puma, portate in Siria e in Iraq dall’Europa, che spuntano dalle vesti nere quasi a voler rimarcare la differenza con le donne locali, «inferiori», rispetto alle mogli dei foreign fighters.
Il reportage: http://www.corriere.it/reportages/esteri/2016/donne-camorra-isis/?refresh_ce-cp