Sono andata a vedere la «Paranza dei bambini» di Claudio Giovannesi tratto dal romanzo di Roberto Saviano con la sceneggiatura di Maurizio Braucci e no, non ho intenzione di parlarvi del film e ovviamente mi astengo anche dalle inutili, paludose polemiche di questi giorni sul bene e sul male di Napoli. Solo che domenica sera a vedere il film al cinema Med nel quartiere di Fuorigrotta, c’erano tanti ragazzi delle «paranze». Quelle vere. Orologi tempestati di brillanti, orecchini, bracciali, collane da far impallidire gli ex voto della Madonna dell’Arco, barbe hipster ormai fuori moda ma omologate dal branco, pantaloni larghi sopra, stretti sotto e innaturalmente corti sulle caviglie, come per evitare le pozzanghere, e ragazzine al seguito avvolte nei visoni che sembravano appena uscite dal trucco e parrucco di una trasmissione della De Filippi, maschere tutte così simili e tutte abili a cancellare la freschezza della loro adolescenza.
Prima della proiezione era tutto un vociare di «Amò, fratammé, m’ea murì tu» (amore, fratello mio, e mi devi morire tu, espressione intraducibile che serve a sottolineare che si sta talmente dicendo una cosa vera da poter mettere anche a rischio la vita di una persona cara che in questo caso (tu) è l’interlocutore). Mi sembrava già così strano vederli varcare la soglia di un posto dove comunque si diffonde cultura. In fondo questa volta mi facevano quasi tenerezza, a gruppetti a seconda della provenienza di quartiere, un po’ a disagio si sfidavano con lo sguardo a cattivone in una tregua che sembrava voler dire: uagliù stiamo andando a vedere la storia nostra. E così tronfi delle aspettative su un racconto che speravano rendesse giustizia a quella finta fiera ma realmente precoce vita criminale, ordinati prendevano posto in sala, sicuri di mostrarsi «eroi oscuri» alle loro ragazze e soprattutto a se stessi.
Ma il film li ha schiaffeggiati. Fotogramma per fotogramma. Con ogni primo piano, sguardo, lacrima, disillusione, rabbia, dolore, verità. Poca cronaca e in quella che c’era ho riconosciuto anche frammenti delle mie videoinchieste sul tema. C’era invece una mano che senza nemmeno troppo riguardo scavava nelle esistenze giovanissime dei protagonisti, nelle loro intimità. Come si finisce così? Da dove viene l’educazione criminale? Tutto sommato non solo dal male. Viene anche un po’ da cose importanti e che però prendono canali e vie sbagliate. La necessità di un senso di giustizia tradito, inascoltato. La volontà di emergere e affrancarsi in un sistema che non ti dà opportunità se non sei «figlio di» o «segnalato da» o ricco di famiglia o se sai che anche se ce la metti tutta può arrivare l’ultimo stronzo con le spalle coperte e passarti addosso. E così il male può sembrare perfino l’opportunità per un riscatto.
Il prezzo è altissimo e il film te lo sbatte tutto in faccia. A quindici anni già sai che la morte disgrega, corrode, torce, distingue. Lo diceva Pasolini e non pensava ai 15 anni. Quindici. Solo quindici. A quindici anni capisci che non puoi sognare, non puoi andare ad un concerto, che non puoi fare una vacanza, che può succedere che non dovrai più vedere la ragazza di cui sei innamorato perché abita in un quartiere nemico. Ti accontenterai della serata in discoteca dove devi ostentare anche quello che non hai, di spendere quei soldi facili e sporchi che non sono nemmeno poi così tanti. E sei un operaio del crimine, un sottoproletario dell’abisso ma fingi di sentirti un re. Per non sprofondare dentro. A quindici anni vedrai falciati via anche quel paio di principi che credevi imprescindibili e figli dell’onore. A quindici anni sarai tradito e condannato. A quindici anni tradirai e condannerai. A quindici anni puoi perdere tutto l’amore che hai. E allora durante il film erano i commenti, i sospiri, i singhiozzi a schiaffeggiare me che osservavo tutto.
L’unico momento di ilarità è arrivato con il protagonista truccato da donna ma pochi minuti dopo le risatine sono diventati colpi di tosse e singhiozzi, perché il travestimento era solo l’outfit per il primo omicidio. Quando poi sono arrivati i titoli di coda, le luci hanno sorpreso quei ragazzi nel silenzio. Un silenzio sempre così lontano dalle loro vite. Un silenzio così frastornante da svegliare l’attenzione su tutti quegli occhi atterriti. Le ragazze in piedi fissavano lo schermo. Uscendo non si sono mai più guardati in faccia. I «lui» cercavano sempre qualcos’altro sul cellulare. Le «lei» affossavano il viso nei peli del visoncino e sembravano perse nei pensieri. Forse a bussare sulle tempie era il ricordo di quella vacanza spezzata dall’arrivo della polizia, o a quella volta che era una giornata così bella che avrebbero voluto passeggiare spensierate e invece si ritrovavano consumate dal sole in fila a Poggioreale per entrare ai colloqui. Giovanissimi già faccia a faccia con la loro matura miseria e un’innocenza sospesa. E difronte l’immagine chiara del loro spietato destino: quello comunque di un fine pena mai.
Il pezzo sul sito del Corriere: https://www.corriere.it/spettacoli/19_marzo_02/paranza-bambini-vista-paranze-vere-arrivano-sicuri-se-cinema-ed-escono-piangendo-730354b0-3c17-11e9-8da9-1361971309b1.shtml?fbclid=IwAR3FBEGArTGimMDT-JlwZUEoRtB8t7SBpoUjIU-VMzje20TaQGdUDyXfB58